Canzoni che non vanno via dalla testa, ecco l’incredibile rimedio per mandarle via ti lascerà a bocca aperta

La musica è una grande compagna di vita per milioni di persone. E lo è stato soprattutto nel 2020, quando il 71% dei ragazzi tra i 16 e i 19 anni intervistati dall’IFPI (International Federation of the Phonographic Industry), ha affermato che le nuove uscite dei loro artisti preferiti sono stati d’aiuto durante la pandemia. Ma che succede se invece non riusciamo a toglierci dalla testa una canzone?

Ci sono canzoni che ascoltiamo fino allo sfinimento, ma che poi facciamo fatica a toglierci dalla testa.

Secondo i dati dell’IFPI, il consumo di musica non ha visto flessioni nel 2021, ma anzi è aumentato, in particolare gli ascolti tramite audio streaming sono cresciuti del 100%.

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Tormentoni in testa (Fonte rawpixel)

Dai dati rilevati in Italia si evidenzia che il pubblico ascolta musica con una media di 19,1 ore settimanali (nel 2019 erano 16,3). Insomma, la musica è sempre protagonista delle nostre giornate, e dei nostri momenti sia di relax che importanti. La musica è ovunque. Ma se “entra” troppo nella testa di chi l’ascolta, cosa accade?

Come si toglie dalla testa un earworms?

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Earworms Lady Gaga (Fonte web)

Sarà capitato a chiunque di ascoltare e canticchiare una canzone per giorni, ore, addirittura settimane. Ebbene, la scienza ci spiega come fare per liberarcene. In gergo si chiamano “earworms”, ovvero le canzoni che hanno la capacità di diventare dei tormentoni di cui si ricordano tutti. Una ricerca londinese di alcuni anni fa, ha rivelato che l’artista che ha collezionato più earworms nella sua carriera è Lady Gaga, con le sue “Bad Romance” “Poker Face” e “Alejandro”.

La risposta l’hanno data degli scienziati dell’Università di Reading, secondo i quali basta masticare una gomma. Questo perché dei suoni che entrano nel nostro cervello, possono essere cancellati sostituendoli con altri simili. E la ripetizione del suono del masticare una gomma “Può essere una forma di memoria involontaria musicale”, ha spiegato Philip Beaman, il professore di scienze cognitive che ha seguito lo studio.

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